Un boato fortissimo fa vibrare l'aria intorno. I miei nervi rimangono elettrizzati.
La pioggia scende incessantemente da più di un'ora, ogni angolo del mio corpo è bagnato. Il sentiero non esiste più, il suo ricordo si fa largo a stento in sottili strisce di terra che dividono i corsi d'acqua sotto ai miei piedi. Non c'è più luce, il sole è oramai tramontato. La frontale è troppo distante per poterla prendere. Resa distante dall'acqua fredda che mi scorre addosso, dal vento che mi raffredderebbe se soltanto mi fermassi, dall'anti-pioggia oramai completamente fradicio che ricopre lo zaino. Lo stesso zaino che custodisce gelosamente la mia lampada nella tasca più profonda.
Decido di andare avanti, di guardare con i piedi, mentre ogni tanto qualche lampo squarcia l'oscurità e tinge di argento quel bosco che assomiglia oramai ad una enorme distesa d'acqua.
Dovrebbe mancare poco all'arrivo, le gambe continuano a correre, è la testa che fa fatica a mantenere la concentrazione in quella situazione limite.
Qualche passo davanti a me la luce di Eleonora illumina un metro quadrato di strada. Cerco di starle il più vicino possibile per non perdere il riferimento, ma non sempre le gambe vanno a tempo. A volte guadagno qualcosa, a volte perdo terreno. Si sorpassa qualcuno che va più piano di noi. In quella lunga, interminabile discesa bagnata verso Calestano, verso lo striscione di arrivo.
Non dovrebbero mancare più di 3 chilometri, un eternità in quelle condizioni. Perdo qualche decina di metri da Eleonora, piombo nel buio più totale, le gambe che non riescono ad accelerare, gli occhi che davvero non vedono più niente.
Un cieco che corre in discesa su di un sentiero allagato.
Passo dei guadi dove l'acqua gelida arriva fino alle ginocchia. Dopo uno di questi, mi vedo una frontale puntata in faccia "Dai Flavio, cazzo! Dai che ci siamo". E' lei, la mia socia. Mi stava aspettando in quella tormenta senza forma.
Sicuramente saremmo arrivati in fondo.
L'obiettivo era quello di arrivare, arrivare assieme. Ed in una gara da più di sessanta chilometri e più di tremila metri di dislivello, può capitare di tutto. Entrambi ne eravamo coscienti, mentre parcheggiavamo la romanian-car vicino al punto di ritrovo, dove consegnavano i pettorali per la partenza. Ultimi preparativi e poi una breve attesa fuori dal bar di Calestano, dove incontrammo quelle facce che alla fine sembrano sempre familiari. Ad un tratto dal brusio uniforme emerse una voce. "Vi ricordate di me?" Odino! Incredibilmente il trio che si formò per caso a Punta Pennes, in quella disgraziata Sud Tirol Ultra Race, si ritrova pseudo casualmente a centinaia di chilometri di distanza. La stessa passione, la stessa spinta che ci anima. Arrivare in fondo, entro il tempo stabilito.
I minuti passarono in fretta da li alla partenza e via.
D'improvviso ci ritrovammo lanciati per le vie del paese, verso i sentieri sterrati che ci accompagneranno fino all'arrivo. Le prime salite e discese affrontate ad un passo quasi esagerato. La socia che in discesa si meritò il titolo di "Kilian della situazione". La lunga salita che ci portò al bellissimo ristoro a metà percorso, dove ci sembrò di toccare il cielo con un dito e di arrivare al traguardo in tre passi. I panorami splendidi avvolti dalle nebbie, raramente illuminati dai raggi del sole. Una manciata di more prelevate direttamente dai rovi a lato del sentiero incuranti del tempo che scorreva impassibile. Gli scorci dei salti del diavolo, con pietre enormi levigate dai millenni. Il piccolo rifugio dopo il ristoro del quarantacinquesimo, dove ci facemmo servire una birra da 66 e una lemonsoda per consacrare ancora una volta il Radler Team. Le mani ghiacciate, tanto da chiedere ad un gentilissimo volontario di rifarmi il nodo ad una scarpa. Salite e discese in boschi così silenziosi da sembrare quasi incantati e dimenticati dagli uomini.
Ma soprattutto lui. Sua maestà il temporale. Ci venne incontro una prima volta, quasi titubante, bagnandoci per una mezz'ora; decidendo di lasciare il posto ad una pioggia leggera alternata a qualche raggio di sole.
La seconda volta si presentò, invece, in tutta la sua maestosa onnipotenza, al calare del sole. Come se volesse aspettare il momento più difficile per metterci alla prova ... o il momento giusto per farci compagnia.
La sua forza sembrava decuplicata dalla notte, lo scrosciare della pioggia sul cappellino di Jack suonava come se gli alberi scossi dal vento mi stessero crollando addosso. Ogni tuono rimbombava nella vallata con lo stesso cupo rumore di una enorme valanga. E quella pioggia fredda, che scorreva incessantemente sulla pelle, dava quasi l'impressione di riuscire ad entrare dentro. Sembrava quasi riuscire a bagnare la nostra essenza, ripulendola da tutte quelle sovrastrutture inutili figlie della società dell'uomo. Perché in quei momenti non si bara. Non conta quello che ti hanno insegnato gli altri, conta solo quello che sei, quello che hai fatto davvero tuo. Nel nostro caso, in più, contava essere DAVVERO una squadra.
Ed eccoci, ancora assieme, dopo 66 chilometri, dopo sorrisi e momenti difficili. Dopo aver vissuto istanti in cui ci si sosteneva a vicenda e attimi in cui ognuno di noi sembrava ricercare nel silenzio quella energia e quella consapevolezza indispensabili per andare avanti.
Un'ultima curva, un arrivo assieme, mano nella mano sotto il diluvio universale, in una Calestano dominata dal buio della notte.
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